La mia vita futura
Domani non è un altro giorno, è solo un pezzo da aggiungere alla nostra collezione.

Quanto ero piccola immaginavo la mia vita futura, come fanno tutti i bambini del resto, e provavo a fare diversi salti in avanti, fino ad arrivare al giorno in cui mi sarei sposata. Quella possibilità non mi entusiasmava, né mi inorridiva, insomma, mi lasciava indifferente, e la cosa, con il passare degli anni, cominciò a farmi sentire diversa dalle mie coetanee. Le mie amiche sognavano il giorno del matrimonio fin dalla nascita, quasi fosse un desiderio indotto o ereditato, e tutte le loro azioni ruotavano sulla costruzione di un amore – autentico o falsato, poco importava – che le avrebbe portate dritte ad una “sistemazione” considerata fondamentale per la loro sopravvivenza. Ma io no, ero per così dire, diversa, o almeno è in questo modo che mi sono sentita, che mi hanno fatto sentire, per anni. Ho capito di esserlo, “diversa” intendo, fin da bambina quando, a differenza delle mie compagne che trascorrevano i pomeriggi a simulare il giorno dello sposalizio creando insoliti abiti nuziali con i veli della mamma, io giocavo a fare la maestra davanti un pubblico di alunni immaginari. Diventare insegnante non era il mio sogno, ma gli altri giochi mi annoiavano. Ad ognuno i propri desideri e, se alle bambine che simulavano marce nuziali è toccato il matrimonio, posso ritenermi più che fortunata se sono diventata insegnante. Ringrazio ancora oggi mia madre che non ha mai indossato foulard e veli di nessun tipo, magari che ne so, mi sarebbe venuta voglia di fare “quel gioco” e adesso mi troverei in chissà quale bilocale di periferia, stordita dalle grida di marmocchi affamati e stanca di sentirmi riferire dalla segreteria telefonica che il mio ex marito, che non paga gli alimenti da due mesi, non è raggiungibile.
La mia diffidenza mascherata da indifferenza nei confronti di un sacramento a mio parere sopravvalutato, a quei tempi, mi portò di diritto nel girone dei diversi, considerati tali per la bislacca abitudine di pensare e agire in modo impercettibilmente difforme dal vivere comune, fin quando non mi stancai di essere guardata di traverso per le mie idee “malsane” e iniziai a far buon viso a cattivo gioco. Cominciai a far finta di sognare anch’io l’abito bianco e la marcia fino all’altare, e mistificai così bene che a un certo punto finii per desiderarlo davvero. Tuttavia, sebbene l’idea della cerimonia iniziasse a farsi strada tra le mie aree cerebrali, mi tormentavo al pensiero del dopo. E dopo? Dopo il lancio del bouquet, le bomboniere, il viaggio di nozze, i primi tempi a fare l’amore tutte le sere, e forse anche le mattine, dopo cosa c’era? Sempre troppo avanti, che palle, io e la mia fottuta razionalità. E dopo? Avrei dovuto condividere lo stesso letto con un’altra persona non solo per il sesso, rinunciare alle mie piccole e incomprese quotidianità, mangiare agli orari prestabiliti e non al bisogno, appaiare i calzini da notte, fare i piatti alla fine di ogni pasto e non quando finiscono quelli puliti, mettere fine alle mie domeniche tra letto e divano, trovare un compromesso tra il Natale dalla suocera e la Pasqua dai miei, smettere di leggere fino alle tre di notte, sentirmi in colpa per i miei piedi freddi, limitare il consumo di Syrah il sabato sera, vergognarmi del mio alito la mattina dopo il vino della sera, cucinare qualcosa di commestibile a pranzo e anche a cena, smettere di mangiare il tonno in scatola dalla scatola stessa, ma più di tutto mi preoccupava il fatto che un’altra persona avrebbe dovuto fare le stesse, ed altre, rinunce per me. Per principio, non capivo il motivo per il quale, per stare insieme a qualcuno, bisognasse rinnegare, anche solo in parte, se stessi.
Ad un certo punto mi fu tutto chiaro: io non ero contraria al matrimonio a livello concettuale, io ero contraria alla convivenza, non in generale, ma alla coesistenza di due esseri umani in uno spazio ristretto. Ero disperata, non tanto per l’illuminazione, ma perché quella consapevolezza mi portava nuovamente nel girone dei difformi, insomma, ero punto a capo: chi glielo spiegava alle mie amiche abituate a giacere “accoccolate ad ascoltare il mare” con i propri uomini e a cibarsi del loro alito, che io aberravo l’idea di dormire con qualcuno a meno che al posto dei baffi non avesse le vibrisse? E che vivere con qualcuno era un’eventualità che avrei preso in considerazione solo per un periodo limitato e se necessario e indispensabile? Non avevo scelta: per evitare di essere emarginata nuovamente dovevo tacere, e così decisi di stare zitta e non svelare la mia vera natura, perché di natura si tratta, e non esclusivamente la mia, guai a dirlo, guai ad ammettere che è la natura umana ad esigere spazi propri e che, a causa di retaggi culturali assimilati negli anni, vivere come topi in gabbia è considerata l’unica scelta per due persone che si amano, anche se questo vuol dire amplificare le proprie diversità e ridurle a un problema e non a una risorsa. Questo ovviamente non vale per tutti, ci sono persone che amano vivere in simbiosi, altre a cui piace aprire la porta di casa e trovarci qualcuno: la verità è che ognuno dovrebbe avere il diritto di vivere come meglio gli pare, senza sentirsi diversa o, peggio ancora, ipocrita come per anni mi sono sentita io.
Tuttavia, la mia natura, umana e dannata (come quella di tutti), mi porta a pensare che prima o poi sperimenterò anch’io questa benedetta convivenza senza avere la sensazione di essere risucchiata al centro della terra con un cappio al collo e le mani trattenute da filo spinato legato a doppio nodo. Nell’attesa che la vita rimescoli le mie carte, ricomincerò a rispondere alle domande di chi in modo indiscreto indaga sulla mia vita privata solo per il gusto di impicciarsi dei fatti miei. Magari li sconvolgerò, dirò loro che ho cambiato sponda e a breve mi farò chiamare Simone, oppure confesserò che dentro il vaso sulla mensola della cucina sono conservate le ceneri del mio ultimo fidanzato, che ho ucciso perché non mi voleva sposare, anzi, no, dirò che a breve prenderò i voti e trascorrerò il resto della mia esistenza in preghiera. Oppure continuerò ad essere me stessa, e aspetterò sulla riva del fiume che passi il cadavere delle opinioni altrui. Aspetta e spera.
simozark@libero.it
Mi chiamo Simona Zarcone, ho 44 anni (portati benino), abito a Palermo, sono un’insegnante di sostegno (per scelta), istruttrice di fitness, appassionata di lettura, di scrittura, del buon vino e sono single, da sempre, o almeno da quando ho dismesso le armi da seduttrice incallita
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