I bicchieri sulla tavola

Foto di Daniela Pennino
Io e i bicchieri non abbiamo mai avuto un bel rapporto. Il trauma, se così lo possiamo chiamare, risale alla mia infanzia, ma devo dire che ancora oggi comporta qualche problema. L’ora dei pasti rappresentava il momento più bello della giornata, momento in cui ci ritrovavamo tutti insieme intorno al tavolo, a mangiare e a scambiarci racconti e informazioni, sulla scuola, sull’ultimo libro letto, su quale film andare a vedere al cinema il sabato pomeriggio. Il compito di apparecchiare la tavola spettava al papà. Oltre a questa mansione, nella quotidianità casalinga, a mio padre spettavano l’acquisto del pesce fresco al mercato di Ballarò e la preparazione del caffè ogni mattina. Probabilmente si sarebbe preso carico anche di altri “mestieri”, ma la mamma era, ed è tutt’ora, un maresciallo dalle gambe sinuose: nonostante lamentasse stanchezza dovuta ai lavori domestici, ripetuti ogni santissimo giorno per rendere la casa più brillante di uno specchio –così diceva lei – , non avrebbe mai permesso alla mano di un uomo di profanare le scope e le spugnette. Diceva, la mamma, che i maschi nelle faccende domestiche sono “fruciuni”, termine che con l’orientamento sessuale non c’entra niente. Fruciuni vuol dire, (l’ho scoperto tempo dopo averlo ascoltato e non compreso) imbranato, approssimativo, maldestro, pasticcione. L’unica volta in cui mio padre fu messo alla prova con la lavatrice, combinò un vero pasticcio. Ricordo ancora oggi i calzini e le mutande color rosa confetto sbiadito con cui io e mia sorella fummo costrette a convivere per mesi, in attesa che si deteriorassero per giustificare l’acquisto di nuovi. Da eterno ottimista, o semplicemente perché non voleva ammettere la defaillance con la separazione dei capi bianchi da quelli colorati, mio padre cercava di convincere me e mia sorella che il rosa fosse un colore bellissimo e che, a volerli comprare intenzionalmente di quella tinta, avrebbe speso di più. Dopo la disavventura in lavanderia, mia madre aveva deresponsabilizzato mio padre e gli aveva assegnato compiti più semplici da svolgere che, male che andasse, non potevano sconvolgere più di tanto l’organizzazione familiare. Da una madre che stirava pure le “mappine” per spolverare, e puliva carponi le fughe dei mattoni con l’amuchina, cosa aspettarsi? Non ho mai capito però, se mio padre quel fatale errore con la separazione della biancheria l’avesse commesso intenzionalmente per evitarsi l’incombenza di quella noiosa mansione domestica. Del resto è ciò che abbiamo fatto anni dopo io e mia sorella, per farci esentare dai noiosissimi compiti che ci venivano affidati alternativamente; rifare i letti, pulire i piatti, stirare. Dire di no a mia madre era impensabile, anche quando esponevamo la tesi secondo cui gli adolescenti non dovrebbero occuparsi di certe cose. Senza aggiungere altro, restava impalata, con le braccia conserte e le pupille spalancate, come in preda a uno stato catatonico. Era capace di restare in quella posizione per diversi secondi (una volta, addirittura, cronometro alle mani, non si mosse per ben un minuto e mezzo), fissandoci, senza battere ciglio, con il fumo che le fuoriusciva dalla narici, innaturalmente dilatate, del naso. Bastava questo per incuterci così paura, da svolgere mestamente tutti le mansioni che ci assegnava. Tuttavia, con il tempo, io e mia sorella aguzzammo l’ingegno, e studiammo una strategia che ci avrebbe liberati definitivamente dalle spugnette e dall’appretto per le camicie. E così mettemmo in atto il piano “Sisters in action”.
OPERAZIONE “Sisters in action”
Lo facevamo apposta: lasciavamo volontariamente qualche residuo di cibo sui piatti o sulle posate, nel rifare i letti evitavamo di fare il rivolto al lenzuolo e maneggiavamo il ferro da stiro in modo impacciato, a volte rischiando di mandare a fuoco la casa dimenticandoci, puntualmente, di passarlo sul colletto di una camicia oppure sugli angoli della fodera del cuscino di lino. Tuttavia, mia sorella a un certo punto desistette e diventò complice di mia madre; passi per la piega mancata del guanciale, ma di mangiare su un piatto sporco o di indossare un capo stropicciato, proprio non se ne parlava, e così decise che quelle mansioni le avrebbe svolte lei. Non mi arresi, e diventai ancora più agguerrita nel complicare la vita domestica di mia madre e di mia sorella, la traditrice della patria! E fu così che entrò a far parte della nostra routine quotidiana Rosina, la colf, per buona pace di tutti. Rosina era una ragazza solare, con il sorriso sempre stampato in faccia, e mi piacque fin subito, ma anche fosse stata antipatica me la sarei fatta piacere, tutto pur di non pulire per terra. Era una ragazza minuta, che quando la vidi per la prima volta provai tenerezza per lei. Con mia madre non si scherzava mica! Non importava che le cose fossero fatte bene, bisognava che venissero svolte nel minor tempo possibile, non tanto per una questione di soldi (tra l’altro Rosina veniva pagata a fourfet, e non a ore) ma perché, secondo la mia genitrice, l’efficienza di una persona si giudicava dalla velocità con cui le completava. Rosina era spacciata; con quelle braccine così sottili e l’ombelico che quasi si baciava con le vertebre, non ce l’avrebbe mai fatta a spostare la colossale vetrina ottocentesca della sala da pranzo. Tuttavia, mi dovetti ricredere ben presto quando, un giorno, di ritorno dalla scuola, la vidi arrampicata sull’armadio impegnata a fare il cambio stagione. Maneggiava gli arnesi da lavoro con una maestria invidiabile e, sotto la vetrina del salone che tanto mi incuteva paura, non c’erano mai tracce di un granellino di polvere. Rosina divenne in poco tempo insostituibile, e io la ringrazio ancora oggi per aver salvato me e mio fratello dal ferro da stiro e dalle spugnette.
MA TORNIAMO AI BICCHIERI…
…I miei genitori non mi hanno fatto mancare mai niente; l’unico dilemma irrisolto riguarda proprio loro.
Nella routine quotidiana, il compito di apparecchiare la tavola era assegnato a mio padre. Quei gesti automatici, compiuti ogni giorno per le due volte dei pasti principali, era un rito a cui non mi sarei mai sottratta. Mi piaceva contemplare il mio genitore prendersi cura della famiglia, con un’occupazione all’apparenza così poco importante, ma che racchiudeva in sé un atto d’amore. Prendere la tovaglia dal cassetto, stenderla sulla tavola, posizionare i piatti e le posate rappresentava un messaggio in codice, che voleva dire: “anche se non sono capace neanche di lavare un calzino, ti rispetto come donna e come moglie, e ti voglio dimostrare che, nel mio piccolo, sono presente e apprezzo quello che fai ogni giorno per me”. Oltre alla tavola, mio padre, per rendere il concetto più chiaro, trasmetteva altri messaggi: puliva il lavandino del bagno dopo essersi fatto la barba, sistemava gli indumenti sporchi dentro al cesto della biancheria, stazionava minuti interi sullo zerbino per assicurarsi che le scarpe fossero linde prima di entrare in casa, insomma, il limite e indispensabile, ma per quei tempi, in cui si la parità tra i sessi era ancora una favola che nessuno raccontava, era addirittura troppo. Insomma, mio padre è stato, ed è tutt’oggi, un marito ed un genitore meraviglioso, ma questa cosa dei bicchieri sulla tavola, durante il pranzo e la cena, non riesco ancora a perdonargliela. Non era una dimenticanza, ma l’ennesimo modo per dimostrare a mia madre il suo profondo amore, evitandole, invano, l’incombenza di pulire stoviglie che non sarebbero state usate, ma che comunque, una volta imbrattate con le mani, avrebbero necessitato di una qualche forma di lavaggio. L’inutilità dei bicchieri durante i pasti principali, era suffragata dalla convinzione che bere l’acqua tra un boccone e un altro fosse dannosa. Tale teoria, supportata da medici e dietologici luminari del tempo, mi ha privato del bene più prezioso per buona parte della mia vita. Il mio corpo si era così abituato a non introdurre liquidi durante i pasti, che il senso di sete mi era sparito del tutto, ricomparendo inaspettatamente in altri momenti della giornata. L’assenza dei bicchieri sulla tavola era una condanna e, ancora oggi che la teoria errata che bere acqua durante i pasti faccia male è stata sfatata, i miei genitori continuano a non metterli sulla tavola, tranne uno, per sicurezza, nel caso in cui a qualcuno vada qualcosa di traverso e necessiti di ingurgitare un liquido.
I bicchieri sulla tavola mi sono mancati tantissimo e oggi, che vivo da sola, per recuperare anni di privazioni ne possiedo di tutti i colori e misure.
Non c’è da stupirsi se, anni dopo, attentai alla vita di Antonio proprio con un bicchiere, che gli lanciai addosso sbagliando appositamente la mira (non volevo fargli male, ma solo spaventarlo). Probabilmente io non ce l’avevo con lui: io ce l’avevo con il bicchiere e probabilmente è a causa (o grazie) a loro che sono ancora single.
Visita anche “Il bicchiere è mezzo vuoto o mezzo pieno?”
simozark@libero.it
Mi chiamo Simona Zarcone, ho 44 anni (portati benino), abito a Palermo, sono un’insegnante di sostegno (per scelta), istruttrice di fitness, appassionata di lettura, di scrittura, del buon vino e sono single, da sempre, o almeno da quando ho dismesso le armi da seduttrice incallita
Il signor P.
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